Di Vito Marino – La civiltà contadina, ad economia povera agricolo-pastorale è scomparsa quasi a taglio netto intorno agli anni ’50, ma il benessere e il consumismo, anche se apparente, non sono riusciti a cancellare nella nostra memoria un mondo semplice ricco di valori umani, dove la famiglia, oggi in via d’estinzione era il perno di tutta la società di allora. Siamo in un periodo storico che cerca di distruggere la nostra identità e le nostre tradizioni e a rendere il mondo senza diversità culturale. La globalizzazione, favorita dalla televisione, è una macchina che tritura le varie ideologie passate e presenti, rendendo il mondo uniforme e monotono.
Tuttavia ho potuto notare che più si allontana nel tempo il tramonto della civiltà contadina, più va crescendo, spontaneamente l’interesse per la ricerca nella memoria collettiva, per recuperare l’eredità della cultura popolare orale, fatta di storia, lingua, canto, musica, proverbi, racconti, usi, costumi e feste, lasciataci dai nostri padri, vissuti in quel mondo arcaico, ormai scomparso…
La lingua siciliana, così classificata anche da autorevoli letterati, è ricchissima di proverbi, frasi idiomatiche, sfumature, motti arguti, contenuti nella lingua parlata, ma anche nella letteratura, che rendono il suo studio interessantissimo.
Ai tempi della mia fanciullezza la divulgazione della narrativa siciliana era affidata ai nonni, sempre presenti nelle famiglie di allora. Questi vecchi patriarchi, con tanta pazienza e tanto amore raccontavano ai numerosi nipotini, favole e storielle varie, la cui provenienza si perdeva nella notte dei tempi; una letteratura orale, che si tramandava da padre in figlio a causa dell’analfabetismo quasi totale della popolazione.
“Li cuntura” (i racconti siciliani) rappresentano un filone letterario che sta fra realtà e fantasia, con poca magia e molta astuzia. Essi sono l’interpretazione di fenomeni naturali, di difficile comprensione ai bambini, spiegati attraverso la trasposizione di fatti reali in miti e leggende; un filone letterario dove il Siciliano cerca di recuperare parte della libertà perduta e l’orgoglio umiliato durante lunghi secoli d’asservimento a dominatori stranieri. Si tratta di fatterelli, dove si evidenziano doti e ricchezze interiori del semplice contadino analfabeta che, con la sua furbizia, riesce a prendere in giro anche il diavolo e la morte. E’ sott’inteso che si recitavano nel puro dialetto dei nostri padri.
Come persona di una certa età, nata durante la civiltà contadina, carica di ricordi e di documentazioni, voglio dare anch’io un modesto contributo alla nobile opera di ricerca e rivalutazione della nostra passata cultura. A tale scopo ho già scritto e pubblicato “Sicilia Scomparsa – il museo della memoria” un libro apprezzato dagli amanti delle nostre tradizioni, ma che è diventato uno strumento prezioso per gli studenti di ogni ordine e grado e, principalmente universitari, per trovare materiale nella loro ricerca storica per la tesi di laurea.
Restano ancora nella memoria del computer, in attesa di essere pubblicati 120 miei “cuntura” (racconti) inediti, scritti direttamente in lingua siciliana che, senza pretese letterarie, fanno rivivere la scomparsa civiltà contadina, semplice, povera, fatta di duro lavoro ma ricchissima di valori umani. Questi racconti sarebbero scomparsi assieme al loro detentore, se non fossero stati scritti.
“Si cunta e si raccunta e si secuta a raccunrari chi ‘na vota c’era…” Così ancora mi risuona nella mente la voce di mia nonna. Tutti i racconti, infatti, incominciavano sempre in questo modo. Molti di quei racconti, che riguardavano re, regine ed eventi che finivano a lieto fine, terminavano così: “Iddi arristaru filici e cuntenti e niatri n’ammulamu li renti”.
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